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SENZA IMPRESA NON C'È RIPRESA

L'intervento a Torino del presidente Ain, Fabio Ravanelli
Fabio Ravanelli, presidente Ain

Novara - Si è tenuta a Torino oggi, giovedì 13 febbraio, una riunione straordinaria sulla situazione economica che sta vivendo il nostro Paese. Tema dell'incontro: "Senza impresa non c'è ripresa". Questo l'intervento del presidente dell'Associazione Industriali di Novara, Fabio Ravanelli.

Buongiorno a tutti. Sono Fabio Ravanelli, presidente dell’Associazione Industriali di Novara, una provincia cui questi cinque anni di crisi hanno fatto perdere il 10,2% della produzione manifatturiera, pari a 244 milioni di valore aggiunto.

Qualcuno, confrontando i dati, potrà osservare che il nostro territorio ha resistito meglio rispetto alla media regionale, soprattutto in termini di calo del reddito (“solo” il 5,1%). Credo che questo sia dovuto alla forte diversificazione produttiva che caratterizza il Novarese, e che nelle fasi di crisi funge un po’ da “paracadute” rispetto ai crolli veri e propri che si sono registrati altrove.

Nonostante questo, ritengo però che l’8,7% di calo del Pil e, soprattutto, i quasi 46 milioni di ore di cassa integrazione cumulate in un quinquennio, con un incremento del 176,6% medio annuo rispetto ai valori pre-crisi, siano un prezzo abbastanza alto da pagare anche per la nostra zona, e le cui conseguenze sul piano sociale ancora lontane dal trovare soluzioni adeguate.

Anche per questo motivo, nel mio intervento vorrei porre l’attenzione su due problemi la cui soluzione è per il mondo imprenditoriale - che in questo caso si ritrova in perfetta sintonia con quello dei lavoratori dipendenti - davvero fondamentale, non solo per garantire maggiore competitività al sistema manifatturiero, ma anche per consentire un maggiore compenso a chi lavora, e in particolare a chi lo fa bene: la riduzione del cuneo fiscale e quella dei costi, ormai quasi insostenibili, che gravano sulle attività di produzione.

Riteniamo che questo risultato possa essere raggiunto attraverso due soluzioni molto concrete: l’eliminazione del costo del lavoro dall’Irap e la detassazione del salario di produttività.

Punto 1: eliminazione progressiva, entro il 2020, del costo del lavoro dalla base imponibile dell’Irap.

La riduzione del costo del lavoro, come tutti sanno, anche perché lo ripetiamo in ogni occasione, è prioritaria per le nostre imprese. Il costo del lavoro in Italia è ormai estremamente oneroso, non solo per le aziende che si rivolgono ai mercati internazionali, ma anche per quelle che operano su quello interno. 

L’Irap, come è noto, grava soprattutto sul costo del lavoro e per questo motivo è sempre stata invisa al mondo produttivo, fin dalla sua introduzione. La riduzione della sua incidenza è quindi fondamentale in una fase di emergenza, anche occupazionale, come l’attuale.

Il gettito Irap in Italia è oltre i 30 miliardi, di cui 20 provenienti dai privati, con un impatto fortissimo sul lavoro e minimo sugli interessi passivi e sugli utili.

È quantomeno singolare che un Paese come l’Italia, privo di materie prime e focalizzato sulla fase di trasformazione - quindi con una forte rilevanza del “fattore lavoro” - imponga tasse così elevate su un aspetto tanto strategico. Detto in sintesi: è assurdo pensare che chi più assume debba pagare più tasse.

L’Irap, inoltre, è una tassa che, per come è stata strutturata, tende ad amplificare gli effetti della crisi. Secondo i dati dell’Agenzia delle Entrate nei primi 11 mesi del 2013 le entrate legate all’Irap sono aumentare del 10,8%.

Punto 2: potenziare e rendere strutturale la detassazione e la decontribuzione del salario di produttività.

Oggi le soglie della retribuzione soggetta a detassazione e i parametri della retribuzione che gode degli sgravi contributivi sono soggette a indicatori e termini di valutazione completamente diversi tra loro.

Questo fatto rende molto complicato, e a volte del tutto aleatorio, fare qualunque previsione sulla reale incidenza di questi istituti sulla dinamica del costo del lavoro e sulla quantità dei benefici, in termini di retribuzione netta, che percepisce ogni lavoratore.

Sono quindi necessari sia una semplificazione sia una maggiore certezza di questi istituti, perché si sta perdendo il collegamento proprio con quella produttività del lavoro che era alla loro origine. Oggi, infatti, solo il 5% dello stipendio è legato alla politica retributiva aziendale basata sui risultati e sul merito.

Senza interventi su questo fronte, in Italia continueremo a spendere, per ogni 100 euro in più di salario lordo, 45 euro per effetto dei contributi e per gli accantonamenti del trattamento di fine rapporto. In Germania, invece, per garantire gli stessi 100 euro lordi un’azienda spende solo 22 euro in più. Questo significa che gli aumenti salariali nel nostro paese, a parità di importo, sono molto più onerosi che in Germania, e che i nostri lavoratori sono destinati a pagare per primi il prezzo di questa sperequazione.

Mi fermo qui perché credo di avere dato un contributo sufficiente, e soprattutto concreto, a delineare soluzioni che sono “a portata di mano” per chiunque, all’interno del mondo politico e istituzionale, creda davvero che fare impresa e creare lavoro debba essere ancora possibile, anche in Italia…

Attendiamo, come sempre, la prova dei fatti.